Disprezzata dagl’intellettuali, detestata dai marxisti, la classe media sta sprofondando nella palude sociale, fino alle soglie dell’esclusione. Però in questa decadenza dei “poveri penultimi” cade il sogno della mobilità sociale
di Francesca Lippi per Il Domenicale
«Distratta, indolente, prudente, la nostra borghesia ama i suoi figli viziati e ribelli». Con queste caustiche parole Leo Longanesi tratteggiava la sua concezione della categoria sociale simbolo della società capitalistica. Del resto la classe media sembra aver sempre avuto una connotazione negativa: piccina, mediocre e perbenista, risultava pessima sia che la si osservasse con sdegno dall’alto, sia che la si guardasse con invidia dal basso. Nell’orizzonte della lotta di classe, poi, è stata vista come piena di colpe e continuamente additata come priva di morale e portatrice di disvalori o, peggio, di quei falsi valori che provocavano «rabbia, pena, schifo o malinconia» in cantautori come Claudio Lolli, speranzoso che il vento un giorno la spazzasse via.
Qual è il significato della critica tout court al “fu ceto medio”? E soprattutto, dove l’ha portato una sfilza di accuse e insulti che non s’è interrotta fino a oggi? L’incriminata “bestia in giacca e cravatta” di fatto ha proseguito a generare scandalo e disprezzo soprattutto nel comune sentire traghettato da quella cultura chic che ha visto nella piccola borghesia niente altro che una massa informe di “ipocriti professionisti”. Ebbene, proprio adesso c’è chi nota la nascita di un’ampia fascia di “nuovi poveri” fra gli ex residenti proprio nell’odiata categoria medio e piccoloborghese, che si dirige con passo svelto verso l’indigenza.
In realtà il fenomeno emerge da qualche anno. I sintomi vengono citati nelle tavole rotonde televisive al grido di «allarme gli italiani non arrivano a fine mese». Ciò nonostante, in quei contesti non si perviene all’indicazione di quale sia la causa del misterioso impedimento, essendo peraltro l’“ammalato” un soggetto dotato di regolare stipendio e magari anche professionista. Da anni, nell’ambito del cosiddetto “terzo settore”, statistiche Istat riguardano questa particolare classe sociale che si è beccata il più alto numero di soprannomi: nuovi poveri, poveri grigi, poveri in giacca e cravatta, penultimi, poveri oscillanti e poveri relativi. Tutti epiteti che servono a scostare larghe fasce di persone da una vita dignitosa e vorrebbero negare al contempo qualsiasi tipo di diritto e di aiuto da parte istituzionale.
Nel Belpaese attualmente sono presenti circa 11 milioni di persone definibili “povere”, di cui 7 milioni e ottocentomila sono “grigi” costretti a vivere con 800 euro al mese: ciò li taglia fuori dal diritto di tutela all’interno di regole burocratiche che stabiliscono chi sta dentro e chi fuori da esenzioni e sgravi. Da tempo, infatti, in un contesto di crescente inflazione con l’aumento dei prezzi contrapposto a una stagnazione dei redditi, è facile riscontrare, contemporaneamente, un’amplificazione di tasse e gabelle che sembra non solo scissa dal reale potere di acquisto dei redditi familiari, ma – quali che siano stati in questi anni i governi in carica e le loro politiche a breve periodo – non tiene neppure conto della continua erosione dello stato sociale che vede la riduzione di servizi pubblici per la salute, l’abitazione, l’assistenza, l’infanzia e la vecchiaia a fronte di un incremento dell’integrazione privata. Ciò si ripercuote su quella che una volta era la “classe media”.
Fino a pochi anni fa questo fatto veniva descritto come circoscritto ai lavoratori dipendenti, forse al fine di ottenere consensi da questi. Man mano, però, e repentinamente, è risultato evidente che il nuovo “gruppo sociale” era eterogeneo, annoverando al suo interno giovani, genitori, donne sposate e non, divorziati, vedovi, pensionati, precari, docenti nonché i tanto odiati “professionisti”. Ogni anno ben 40mila piccole imprese e attività artigianali, e oltre 150mila commercianti, falliscono a causa dell’usura a cui sono costretti a ricorrere per fronteggiare spese insostenibili dopo che il credito bancario è loro negato per mancanza di garanzie. Secondo dati Eurispes il 44,2% della popolazione che è costretta a indebitarsi lo fa per mancanza di liquidità, mentre per il 19,7% la motivazione principe pare la necessità di denaro e la mancanza di altre soluzioni possibili al fine di acquistare ciò di cui si ha bisogno, dagli elettrodomestici fino alle cure mediche e ai libri scolastici. Il primo risultato è la perdita dell’abitazione: sono in aumento gli sfratti nelle grandi città, con un incremento del 150%, e le richieste di sfratto sono salite del 220%.
A detta della Caritas, la quale si vede aumentare le richieste di aiuto ogni anno del 40%, il problema scaturisce anche dal fatto che i poveri detti “relativi” hanno necessità differenti rispetto a quelli “assoluti”: un impiegato con famiglia, con stipendio di mille euro mensili che se ne vanno in fumo con le bollette, non può essere considerato povero anche se avesse figli a carico, che diventano così un effettivo peso economico. Il cittadino in questione si troverà emarginato dalla società e costretto a far fronte senza alcun tipo di appoggio o garanzia alle spese della sanità, dell’istruzione e dell’alimentazione.
Nel convegno promosso a febbraio dall’associazione “G. Dossetti: i Valori” col titolo “Alimentazione e recessione”, il segretario generale Claudio Giustozzi spiegava come le vittime di questa situazione siano proprio quei ceti medi che, comprendendo oltre 4.700mila famiglie italiane, non riescono più a far quadrare i conti delle bollette, delle rette scolastiche e della spesa al supermercato.
Nell’odierna “società dei tre terzi”, il 29,9% degli italiani risulta garantito da un reddito superiore ai 35mila euro annui, il 32,1% vive con meno di 17.500, mentre ben il 38% è rappresentato proprio dal ceto medio che vive di precarietà e rischia continuamente di scivolare nel gradino più basso, sui confini dell’area di inclusione-esclusione. L’immagine che viene rimandata è quella di un’Italia molto simile al Sud America, caratterizzata da forti squilibri sociali, e con una soglia di povertà già a 1850 euro mensili: incapace non solo di sostenere spese impreviste, ma anche di riscaldare la casa, sostenere spese mediche e di prima necessità.
La lotta di classe sembra essere andata, quindi, ottimamente in porto. La vetusta e anacronistica battaglia è vinta: il borghese col suo mediocre pensiero di tranquillità è stato abbattuto. Poco importa se il risultato è stato antidemocratico: lo stillicidio verso il basso di un ceto “di mezzo” non significa solo aumentare il divario fra “ricchi” e “poveri”, ma ostacola quella che è stata definita “mobilità sociale” e che è il simbolo dell’evoluzione della collettività, impedendo il diritto a chi è negli strati inferiori di poter accedere a livelli superiori. I quali, per contro, si ergono su piani così elevati che risultano impossibili da raggiungere.
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